I misteriosi ritratti di Reiko e la rivoluzionaria pittura di Kishida Ryūsei

Alla Tōkyō Station Gallery, dal 31 agosto al 20 ottobre, si celebra il novantesimo anniversario dalla morte di Kishida Ryūsei 岸田 劉生 (1891-1929) con una ricca retrospettiva. Rappresentato da 150 tele in questa mostra, Kishida è stato una figura fondamentale della pittura giapponese del Novecento.  Immaginiamo allora un visitatore ignaro in questa galleria, alla scoperta di un artista che ha affrontato cambiamenti di stile radicali, vicende personali tragiche e sconvolgimenti storici. Sarebbe sicuramente incredulo al realismo di alcune opere e il surrealismo di altre, e proverebbe, come molti prima di lui, una certa perplessità alla vista dei suoi ritratti. Finirebbe per chiedersi: perché le sue opere sono così enigmatiche e differenti? e cosa lo ha reso questo pittore uno dei più misteriosi e studiati del Novecento giapponese?

Seguiamo, quindi, il nostro visitatore che percorre gli spazi della galleria: vedrebbe paesaggi alberati, scorci di sentieri e autoritratti del pittore, simili a quelli degli impressionisti e degli artisti europei della fine dell’Ottocento, come “La strada sulla collina” realizzato nel 1915. Certo novità nella storia dell’arte giapponese fino a quel momento. Proseguendo nella scoperta dell’opera di Kishida, incontrerebbe anche diversi ritratti della stessa bambina, piuttosto simili tra loro, con variazioni a volte minime tra uno e l’altro; ma a questo punto, se il nostro osservatore fosse attento, noterebbe che in alcune versioni ella accenna un dolce sorriso, mentre in altre il suo sguardo è spiritato, distante e innaturale, addirittura angoscioso. Il disegno è preciso e realistico, ma i dettagli sono surreali. Tra i disegni a inchiostro, il visitatore ritroverà la stessa bambina, ma più simile a uno spiritello, una bambola o uno yōkai 妖怪 (spiriti, folletti), una strana presenza, somigliante alle illustrazioni e alle stampe ukiyoe 浮世絵 di leggende di mostri e fantasmi. Il nostro visitatore sarebbe incuriosito da questa continua ripetizione e si domanderebbe  chi sia questa bambina e perché la sua presenza comunichi disagio e inquietudine, tanto quanto tenerezza e familiarità. 

Chi era Kishida Ryūsei

Kishida è nato a Ginza 銀座, oggi quartiere del lusso di Tōkyō, da una famiglia benestante e di cultura elevata. La sua educazione artistica è iniziata sotto l’ala protettrice di Kuroda Seiki 黒田 清輝 (1866 -1924), uno dei più importanti pittori del momento e responsabile della divulgazione dell’arte occidentale in Giappone. Da lui Kishida apprende un’importante lezione: non è necessario dipingere esclusivamente “alla giapponese” o “all’occidentale”; c’è molto valore, invece, nel cogliere il meglio dai due stili. Durante la sua carriera prenderà parte a diverse associazioni e movimenti, attirando amicizie e rivalità in ugual misura. Per la particolarità del suo stile, si trova ad affrontare critiche e diffidenza, e le sue precarie condizioni di salute e varie sventure pongono ulteriori ostacoli nella sua carriera. Il grande terremoto del Kantō 関東大地震 lo costringe a trasferirsi Kyoto e poi a Kamakura. Riuscirà  comunque ad affermarsi come critico e teorico dell’arte, oltre che come artista. Nel 1916, tre anni dopo la nascita di sua figlia, gli viene diagnosticata la tubercolosi. Col tempo sviluppa l’alcolismo che lo porterà alla morte per insufficienza renale, appena tornato dall’unico viaggio all’estero che abbia mai affrontato: quello in Manciuria nel 1929. Un tale riassunto della vita di Kishida potrebbe indurre a credere che l’esistenza di Kishida corrisponda a quella travagliata e tormentata tipica degli artisti. Ma per conoscere i sentimenti più profondi e la verità che si cela dietro alla sua arte e alla sua filosofia dobbiamo capire quale fosse il clima in cui lavorava e cosa lo spingesse a sfidare i suoi predecessori, sia europei sia giapponesi. Dopo aver esplorato  l’impressionismo e lo stile occidentale, nella seconda parte della sua carriera è ritornato alla tradizione cinese e giapponese e ha sviluppato un realismo completamente inedito, ispirato da yōkai e yūrei 幽霊(fantasmi). A cosa dobbiamo questa metamorfosi? E perché non si può parlare di Kishida senza parlare della figlia Reiko?

 




La serie di ritratti di Reiko 

Il personaggio ritratto in tutte queste varianti è la figlia di Kishida, Reiko 麗子. Ogni anno dal 1914 al 1929, nel giorno del compleanno della sua bambina, Kishida realizzava un suo ritratto. Per la precisione, il quadro considerato il primo della serie non è affatto un ritratto di Reiko; è il dipinto della moglie di Kishida, Shigeru, incinta, ritratta dal collo in giù, come se il soggetto principale fosse la bimba, non la madre. Queste istantanee non erano solo la celebrazione di un anniversario: permettevano al padre di Reiko di fissare un’immagine, di sfidare lo scorrere del tempo. Come se la piccola fosse in costante mutamento e l’artista cercasse di cogliere ciò che rimaneva costante, la sua essenza. Quasi sempre un mezzo busto di tre quarti, quasi sempre vestita di rosso, quasi sempre l’immagine realistica di una bambina in kimono. Quando l’inquadratura si allarga, Reiko è di solito seduta alla giapponese, più di rado in piedi. Alcuni elementi, però, cambiano costantemente: Reiko può tenere in mano un tamburo, un giocattolo, una mela. In una versione è sorridente, in un’altra è crucciata. Ma le variazioni sul tema non si fermano qui. Una delle più esplicite trasformazioni vede la bambina rappresentata come il poeta cinese Hanshan 寒山, nello stile della pittura a inchiostro del XIII-XIV secolo. In un altro quadro vediamo due Reiko quasi identiche, una dalle fattezze più umane, che acconcia i capelli all’altra, che invece somiglia più a un burattino. Altre rappresentazioni sono più fiabesche e giocose e la vedono giocare con un cagnolino, ammirare dei fiori, servire del tè da una teiera riccamente decorata, spesso con un’espressione molto distante da quella verosimile e dolce dei primi esempi più realistici.

Yōkai e yūrei

Nel corso della storia giapponese gli spiritelli e i fantasmi, gli yōkai e gli yūrei, sono sempre stati presenti nelle leggende, nelle stampe ukiyoe, nelle illustrazioni dei libri di racconti dell’orrore, molto amati dal pubblico. Nel Novecento, diversi intellettuali giapponesi iniziarono a mettere in dubbio le credenze e le superstizioni tramandate per secoli e rivalutarne il significato e la storicità. Inoue Enryō 井上円了 (1858-1919), eminente filosofo buddhisita, ha pubblicato più saggi sul tema degli yōkai, influenzato dalla logica e dal metodo scientifico occidentale: secondo il suo pensiero, essi sono manifestazioni fisiche di malessere, catastrofi, terremoti e incendi, che prendono fattezze quasi animali e quasi umane nell’immaginario collettivo, per permettere all’uomo di dare un corpo e una faccia a fenomeni dolorosi e astratti. L’arte, come gli yōkai, ha il compito di farci dimenticare i dolori e le distrazioni terrene per avvicinarci all’illuminazione buddhista. Inoltre, entrambi sono catartici e ci danno la possibilità di eleborare traumi e eventi spiacevoli: ricordiamoci che il nostro artista ha avuto esperienza del terremoto de 1923. Questa filosofia, infatti, colpisce molto Kishida che, dopo aver illustrato il libro “Storie di fantasmi” del 1924, esplora anche nella sua serie di Reiko l’universo degli yōkai che entrano a far parte della storia umana, che interagiscono e si trasformano in esseri umani, nella sua bambina. Il pittore gioca con la metamorfosi: Reiko è colta durante una continua trasfigurazione, si dissolve e ricompare, alterata, mutata, come un fantasma, e diventa a sua volta simbolo di cambiamento, di trasformazione. Il simbolismo non si ferma qui: il ritratto delle due Reiko che abbiamo già citato, ad esempio, rappresenta anche il Giappone del tempo, diviso tra modernità e scienze occidentali e tradizione e filosofia autoctone. Il suo Paese sta affrontando una transizione epocale mentre lui dipinge. L’artista sostiene che gli yūrei, i veri e propri fantasmi incorporei e trasparenti che sono familiari anche a noi occidentali, rispondono a un “bisogno di mistero” e rappresentano un “terrore istintivo”: per questo si possono trovare in diversi momenti dell’arte mondiale. Kishida porta i fantasmi e il soprannaturale in maniera sottile e inaspettata nel quotidiano: per questo molti critici hanno definito il suo “realismo magico”. Egli trae le sue conclusioni dopo essersi appassionato allo studio delle prime stampe ukiyoe, come quelle di Hishikawa Moronobu 菱川師宣(1618-1694), in cui famosi eroi combattono spiriti e demoni. Come se una forza attrattiva lo spingesse a tornare alle origini artistiche del suo Paese.

L’influenza dell’occidente e il richiamo della tradizione 

Per quasi un secolo critici e storici dell’arte hanno studiato la serie di Reiko e le motivazioni che si celano dietro alle varie scelte stilistiche. Artista attivo sulla scena dell’arte dell’epoca Taishō 大正 (1912-1926) e dell’inizio dell’epoca Shōwa 昭和 (1926-1989), Kishida non imita passivamente l’esempio occidentale recentemente approdato in Giappone, come facevano certi suoi contemporanei. Possiede invece uno stile completamente personale, frutto della sua fascinazione per i fiamminghi e per Michelangelo, Delacroix, Rembant e Rodin e del suo amore per la cultura giapponese antica vista sotto una luce contemporanea. Alla fine del XIX secolo, tutta la filosofia, la scienza e la storia dell’arte occidentale entrarono contemporaneamente nell’arcipelago attraverso diversi canali: Kishida scopre quindi la religione cristiana, alla quale si converte, gli impressionisti, opera di Leonardo e le scoperte illuministe tutte allo stesso tempo. In seguito alla sua conversione, il pittore sviluppa una concezione della creazione artistica fortemente influenzata dalla religione monoteista, in cui il pittore è un vasaio, un artigiano che plasma la materia della realtà a suo piacimento: un modo di vedere l’arte più occidentale. Negli anni dieci e venti i pittori giapponesi si dividevano per la maggior parte in due categorie, aderendo allo yōga 洋画 o al nihonga 日本画. La corrente yōga, letteralmente “di stile occidentale” riprendeva la tradizione pittorica occidentale, utilizzando chiaro-scuri, ombreggiature, prospettiva e altre tecniche di derivazione europea, impiegando soprattutto colori ad olio, completamente inediti in Giappone. A questa apparente mania esterofila, rispondeva la corrente nihonga o “di stile giapponese”, decisamente più vicina all’arte tradizionale, fondendo temi e metodi delle scuole Kanō 狩野派 e Rinpa 琳派 del XV e XVI secolo. Kishida si cimenta in entrambi gli stili, finendo per creare una personalissima alternativa, lasciandosi influenzare nella stessa misura da Van Gogh e dai pittori cinesi della dinastia Song cinese: apparentemente così distanti, questi apporti contribuirono a renderlo consapevole delle differenze e della inaspettate somiglianze tra le due tradizioni. Studiando i pittori europei dalle fotografie in bianco e nero delle loro opere, Kishida scopre un mondo di yōkai parallelo a quello orientale. Mostri e personaggi fantastici popolano molti dei dipinti di uno dei suoi preferiti: Francisco Goya (1746-1828). Anche i visi distorti e i mostri di Albrecht Dürer (1471-1528) ci ricordano alcuni dei sorrisi di Reiko. L’esperienza più recente degli impressionisti e di Van Gogh lascia invece un segno profondo nella sua tecnica pittorica. I suoi autoritratti sono una novità per il pubblico giapponese: mostrano una forte introspezione e rivelano la psicologia del soggetto in un modo inedito. Anche quando ci mostra Reiko, l’artista vuole farci concentrare sulla sua interiorità, sullo spirito che non cambia attraverso le varie trasformazioni. Kishida, però, si rende conto presto che il realismo occidentale non è l’unico possibile e che ne esistono esempi eminenti nell’arte giapponese. Spinto dalla sua passione per l’arte tradizionale, l’artista si cimenta nella pittura a inchiostro, che permette di evocare con grande verosimiglianza figure dettagliate in pochissimi tratti. Anche grazie al richiamo dello stile nihonga, Kishida fa ritorno a una sorta di realismo orientale, dalla storia centenaria, in cui a essere reali sono le sensazioni, i sentimenti trasmessi. 

Kishida tenta di esplorare la natura umana, il concetto di cambiamento e le paure ataviche nei ritratti di sua figlia. Reiko non è solo un bizzarro ibrido: è il simbolo delle paure dell’uomo e di come cerchiamo di superarle; è la testimonianza della rivoluzione del pensiero e dell’arte giapponese dell’inizio del secolo scorso, ma anche il racconto di una storia universale e senza tempo. Anche per questo Kishida sarà sempre celebrato come uno dei più grandi pittori giapponesi degli anni venti, in retrospettive come quella della Station Galllery. Se il nostro visitatore conoscesse l’origine delle sue variazioni e stravanganza, potrebbe apprezzare ancora più sinceramente la sperimentazione dell’artista, e forse anche commuoversi davanti ai ritratti di Reiko. 

Fonti

Paper: Les Fleurs artificielles – Les Portraits de Reiko de Kishida Ryūsei, ou comment les fantômes sont à l’œuvre

Paper: Que peut-il sortir de bon de Nazareth ? Introduction à l’œuvre de Kishida Ryūsei 

Masaaki Iseki, La pittura giapponese dal 1800 al 200, pag. 98-118