Burakumin: la storia e le lotte degli intoccabili giapponesi

Tarō è un ragazzo giapponese come tanti. E’ di nazionalità giapponese, la sua lingua madre è il giapponese. Tuttavia sa che potrebbe essere bersaglio di vessazioni, isolamento da parte dei suoi pari, e potrebbe dover rinunciare a un posto di lavoro o all’università scelta: la sua famiglia appartiene a una minoranza alternativamente perseguitata o dimenticata nella storia del Paese e anche nel 2020 Tarō potrebbe subire la discriminazione che i suoi antenati hanno dovuto sopportare.

Tutt’oggi in Giappone esistono persone indistinguibili dal giapponese medio per aspetto, lingua e abitudini di vita, che vengono però discriminate per la loro discendenza. Comunemente noti come burakumin, erano parte di una vera e propria casta per secoli, fisicamente separati dai comuni cittadini. Mentre oggi, a differenza che nei tempi antichi, la discriminazione esplicita è illegale, rimangono pregiudizi fortemente radicati.
In questo articolo cercheremo di riassumere le vicende storiche, capire le origini e le vicissitudini che queste comunità hanno attraversato e quanto ancora attuale questo problema sia nel Giappone di oggi.


Il concetto di impurità e le origini dei burakumin

La parola burakumin 部落民 significa letteralmente “abitante di una sezione di un villaggio” ed è il termine più comunemente usato per designare le persone che appartengono a questa casta.  Nei secoli si sono sviluppate alcune teorie circa l’origine di queste comunità, assecondate anche dalla nozione che dovessero provenire dall’esterno rispetto al Giappone: forse provenivano dalla Corea e sono giunti dopo la vittoria dell’imperatrice Jingū 神功皇后, dalle Filippine, da una etnia di origine ebraica migrata anticamente. In realtà, la loro segregazione non dipende da una particolare provenienza geografica o credo religioso, ma piuttosto dai mestieri che esercitavano e la loro valenza negativa nel contesto della religione giapponese tradizionale. Non costituiscono un’etnia differente, e le ipotesi inverosimili circa la loro provenienza sono state smentite e dimenticate definitivamente solo nel XX secolo.  

Già in tempi antichi il corpo era concepito come un paradigma degli schemi sociali: si era consolidata l’idea che si dovesse mantenere una distinzione invalicabile tra esterno e interno. Tutto ciò che esce dal corpo ne mina l’unità. Quello che intacca la singolarità del corpo umano o, per estensione, della collettività è kegare 汚れ, cioè impuro. Le persone che avevano a che fare con le secrezioni fisiologiche, il sangue in particolare, o i morti erano tacciate come sporche e responsabili di una rottura dell’armonia. Andavano isolate perché rappresentavano l’”ara” 荒, cioè il selvatico e violento in contrapposizione al “nigi” 和, l’ordine pacifico. La loro colpa era di avere  rotto l’unitarietà della società.
Per questo si usavano termini specifici per additarli. Yotsu 四つ, cioè “quattro”, intendendo zampe, e insinuando la loro appartenenza non alla categoria umana ma animale. Hinin 非人, letteralmente “non uomini”. Eta 穢多 “pieno di sporco”. Eta e buraku col tempo hanno finito per essere praticamente intercambiabili nel linguaggio comune. Tra i professionisti discriminati c’erano, tra gli altri, gli ryōko 陵戸, cioè i guardiani di tombe, i falconieri (takajō 鷹匠), per il loro legame con la caccia, e gli schiavi imperiali (公奴婢, kunuhi) e privati (私奴婢, shinuhi).  Il contatto con persone impure era considerato una grave violazione delle regole, ma esistevano diversi gradi di contaminazione, dal semplice contatto al matrimonio, l’infrazione più grave. Per evitare la vicinanza con queste persone, esse venivano fisicamente separate e vivevano in comunità senza regole definite. Quando dovevano lavorare per gli individui non contaminati nelle loro case, come per lo spostamento di un cadavere, venivano loro riservati ingressi e uscite appositi, per evitare promiscuità indecenti. Spesso non venivano nemmeno inseriti nei censimenti e non erano considerati cittadini. Tra le dicerie che li riguardavano troviamo: “manca loro una costola, hanno un osso di cane nel loro corpo, hanno organi sessuali distorti; il loro sistemi escretori sono difettosi; se camminano nella luce della luna il loro collo non proietterà ombra; e, in quanto animali, lo sporco non aderisce ai loro piedi se camminano scalzi.” Erano considerati esseri non umani, in tutto diversi e separati da chi è sano e integro. Da sempre il consumo di animali utili all’uomo da vivi era visto con disprezzo in Giappone, ma l’avvento del buddhismo e le norme dettate riguardo al consumo di carne hanno peggiorato la reputazione di chi esercitava mestieri come la lavorazione delle pelli e la macellazione. 

 

Il consolidamento del periodo Tokugawa 

Durante il periodo feudale costellato da guerre civili, detto epoca Sengoku 戦国時代 (1467-1603), gli artigiani che lavoravano la pelle si erano ritrovati a assolvere a una notevole mole di lavoro per l’alta domanda di selle per cavalli e accessori per le armi. Questi rientravano più propriamente negli eta, insieme ai tintori, agli artigiani del bambù e del metallo, i trasportatori di merci e chi lavorava nella manutenzione dei templi e dei santuari. Il termine da loro preferito era però kawata 皮田, che fa riferimento alla lavorazione delle pelli. Gli hinin invece comprendevano intrattenitori, performer e mendicanti. Al termine delle guerre civili la condizione di queste persone peggiorò ulteriormente: la maggior parte sono diventati contadini, reclusi però in zone difficili da coltivare e insalubri. Le comunità di burakumin sono state formalizzate e costrette a un isolamento ancora più restrittivo nel periodo Tokugawa 川時代 (1603-1868), quando la popolazione fu divisa in quattro classi shinōkōshō 士農工商: samurai, contadini, artigiani e mercanti.  I problemi che affliggono queste comunità hanno le radici in questo periodo: immobilità sociale e finanziaria (non possono aspirare a lavori non compresi tra quelli tradizionalmente accettati), grado di istruzione e alfabetizzazione più basso che nel resto del Paese, infrastrutture e servizi igienici meno funzionali e efficaci. Mentre il sistema feudale degli han 藩 forniva un’opportunità di identificazione per i cittadini che provavano un forte senso di appartenenza al proprio territorio, i burakumin si trovavano sempre più slegati e fluttuanti in un Giappone che ne ignorava le istanze. 

 

Le lotte del Novecento

Durante il periodo Meiji 明治時代 (1869-1912) i burakumin non parteciparono alla corsa verso la modernità come il resto dei cittadini. Venivano generalmente impiegati dai governanti nell’agricoltura e sempre isolati in villaggi indigenti. Il loro disagio è pertanto aumentato, come il contrasto con la prosperità delle grandi città.  Il sistema di caste è stato smantellato e dal 1871 gli eta erano noti come shinheimin (新平民), cioè nuovi cittadini. Molti burakumin si sono spostati dalle comunità isolate e hanno nascosto la loro identità e discendenza. Allo stesso tempo persone di origine non eta si sono trasferite nelle comunità tradizionalmente costituite da famiglie burakumin. Anche per questo l’identità di questi individui è estremamente complessa ancora oggi e i confini geografici delle comunità non corrispondono a comunità di persone esclusivamente burakumin. Finalmente nel secolo scorso, in concomitanza con la nascita di partiti di sinistra gruppi di contestazione e liberazione sono nati tra gli anni venti e trenta. La Suiheisha 水平社 fondata nel 1922 è stata una delle associazioni di liberazione più efficaci e dedicate in modo specifico ai burakumin. Anche molti “gruppi di conciliazione” locali detti Yūwa (e poi Dowa) si univano alla loro causa e contribuivano alla trasmissione del loro messaggio. Nel marzo del 1922 pubblicarono una dichiarazione in cui incoraggiavano la celebrazione dell’identità eta e l’abolizione dello stigma: una traccia invisibile ma nociva nella loro discendenza. 

A causa delle sue associazioni politiche poco gradite al governo, la Suiheisha è stata smantellata durante la seconda guerra mondiale. Tornerà in attività nel dopoguerra con il nome Buraku Kaihō Dōmei 部落解放同盟, Lega di Liberazione Buraku (o BLL). La figura centrale, per quanto controversa, era Jiichiro Matsumoto 松本治一郎 (1887-1966): la sua voce è stata tra le più esplicite e riconoscibili del movimento. Gli sforzi di queste associazioni nel clima rivoluzionario degli anni sessanta hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema buraku, costringendo il governo a affrontare l’arretratezza economica delle “aree bersaglio”. Il programma decennale lanciato nel 1969 prevedeva aiuti economici, ma chi di preciso dovesse beneficiarne non era molto chiaro e oggetto di manifestazioni. Sarebbero serviti per finanziare l’educazione, le costruzioni pubbliche e per alleviare la povertà delle famiglie. Questi provvedimenti sono ancora oggi considerati un tentativo del governo di nascondere il problema e diffondere una falsa apparenza di tolleranza nel contesto internazionale. 


La narrazione della vita nei vicoli

Alcuni scrittori di origine buraku, e altri che pur non essendolo si sentivano vicini alle loro vicende e lotte, hanno scritto romanzi per portare alla luce le loro condizioni. Queste opere hanno contribuito alla comprensione e diffusione della storia di questo gruppo sociale. Tōson Shimazaki 島崎 藤村 (1872 -1943) ha scritto “Hakai” 破戒 (in italiano “La promessa infranta”). Il romanzo del 1906 è considerato il primo esempio di naturalismo giapponese e una delle prime e più coraggiose ricostruzioni della vita burakumin. Racconta la storia di un insegnante di origine buraku che tenta di mantenere nascosta la propria origine a qualunque costo: questo per evitare delle violente conseguenze e dell’isolamento che potrebbero affliggerlo se la notizia si diffondesse. Alla fine, però, il suo segreto viene rivelato e lui si scusa con i propri alunni per aver mentito. Un altro burakumin trasferitosi in Texas gli permette di sfuggire alle più gravi conseguenze e di raggiungerlo negli Stati Uniti per iniziare una nuova vita. Dal romanzo nel 1962 è stato tratto un film diretto da Kon Ichikawa 市川崑 (1915-2008).

Kenji Nakagami 中上健次 (1946-1992) era l’unco scrittore moderno che si identificasse apertamente come burakumin. Trattava nei suoi romanzi della vita precaria e sfortunata degli abitanti dei vicoli (roji 路地), i ghetti degli indesiderabili. In “Karekinada” 枯木灘, (“Il mare degli alberi morti” del 1977) il protagonista è perseguitato da un passato triste, cresciuto in una famiglia divisa e da genitori incostanti. In Sennen no yuraku 千年の愉楽 (“Mille anni di piacere” del 1982) si susseguono le vicende dei discendenti di una dinastia maledetta, quella dei Nakamoto, segnata da un amaro destino. L’ostetrica Oryū li vedrà perire impotente in situazioni funeste. Come se il loro sangue fosse segnato e la loro sorte decisa nel momento in cui lei stessa li ha messi al mondo. 

Sue Sumii 住井 すゑ (1902-1997) nella sua infanzia ha assistito a continue umiliazioni di adulti e insegnanti ai danni di bambini buraku. Ne “Hashi no nai kawa” 橋のない川 (“Il fiume senza ponti” del 1961) ha raccontato della vicenda di uno dei fondatori del movimento di liberazione e ha aiutato a portare alla notorietà l’esperienza buraku. 

Locandina del film tratto da Hakai da filmtv.it 

La strada verso l’uguaglianza 

Uno dei mezzi più efficacemente crudeli utilizzati per l’esclusione degli eta erano i registri delle aree e famiglie burakumin, detti chimei sōkan  地名総鑑 . Nel 1975 è scoppiato un vero e proprio scandalo che ha portato alla luce la compravendita di queste liste. Le aziende le acquistavano per conoscere le origini di un candidato e così evitare di assumere un burakumin. Le famiglie in cerca di un buon partito o una sposa adeguata per i loro figli  le consultavano per evitare di unirsi in matrimonio con una persona dal lignaggio indesiderabile. L’arma più largamente usata dai movimenti di liberazione è stata la kyūdan 糾弾, cioè la denuncia di comportamenti discriminatori. La logica alla sua base è che il timore della pubblica umiliazione mira a scoraggiare sentimenti e esternazioni razziste. Un altro impegno delle associazioni sta nel promuovere un linguaggio meno divisivo. I termini che oggi sono accettati e incoraggiati dagli attivisti per riferirsi ai buraku sono diversi da quelli che abbiamo usato finora. All’esterno la questione burakumin è ancora relativamente poco nota e il termine viene usato senza particolari scrupoli. Sarebbe però più corretto e rispettoso usare parole quali tokushu buraku 特殊部落 o hisabetsu buraku 被差別部落, cioè comunità particolari o discriminate.

Secondo la BLL al giorno d’oggi in Giappone vivono 3 milioni di burakumin e 6000 comunità. La questione burakumin è una delle più spinose per la reputazione del governo giapponese. Ancora oggi il Giappone si racconta e viene percepito come un paese etnicamente omogeneo. In realtà, ad esempio, esistono numerose comunità di migranti e i loro discendenti, in particolare coreani. Questa fama nazionale, conveniente per le istituzioni odierne, è un retaggio delle politiche e della propaganda del secolo scorso. I burakumin sono tra i più attivi e espliciti nell’abbattimento di queste omissioni, e per la tutela dei diritti umani delle minoranze. Anche grazie a loro in Giappone si parla sempre di più di problemi sociali e umanitari. Uno dei punti operativi delle associazioni di liberazione è il cambiamento dell’opinione pubblica riguardo a questa minoranza. Ad esempio, a causa dell’isolamento e disagio da cui erano affetti, alcuni burakumin sono stati costretti a attività criminali, anche nella yakuza やくざ. Per questo esiste uno stereotipo da combattere, molto noto e radicato che la maggior parte dei burakumin siano parte della criminalità organizzata. 

Questi pregiudizi sono alla radici di azioni infelici e talvolta violente, che hanno luogo frequentemente. Lettere di minacce sono spesso trovate nelle cassette della posta di persone che esercitano mestieri anticamente legati agli eta. Tra i tanti, il caso che nel 2004 ha visto arrestato un uomo di 34 anni per aver inviato numerose cartoline con messaggi d’odio a membri della Lega di Liberazione dei Burakumin. O ancora quello degli impiegati al mercato della carne di Shibaura 芝浦 a  Tōkyō nel 2015. 

Ritornando al nostro Tarō, capiamo quindi che anche nel Giappone di oggi si trovi in una posizione vulnerabile e potenzialmente pericolosa. Nonostante i costanti sforzi e al coraggio di chi denuncia comportamenti prevaricatori, la strada verso il superamento dei pregiudizi contro i burakumin è tortuosa. La soluzione più a lungo termine sarebbe un cambiamento radicale della mentalità collettiva, certamente più difficile da attuare. 

Fonti 

Japan’s Minorities: The Illusion of Homogeneity (pagg. 64-77)

Multiethnic Japan, J. Lie (pagg. 52-54)

Gli itinerari del sacro, M. Raveri (pagg. 155, 159-162)

An introduction to Japanese society, Y. Sugimoto (pagg.197-201)

The Asia-Pacific Journal

Japan Times

bbc

Japan Times

Japan’s invisible Race, G. de Vos, H. Wagatsuma (pagg. 6-61)

Mille anni di Piacere di Nakagami Kenji a cura di A. Pastore (introduzione)